Mi piace leggere, soprattutto romanzi, e leggo disordinatamente. Non ho nessuna pretesa di sapere distinguere un bel romanzo da uno cattivo, li divido semplicemente in quelli che mi piacciono e quelli che mi piacciono meno; anche se so riconoscere chi sa scrivere bene, e mi dà fastidio quando leggo qualcosa di mal scritto, sciatto. Un’altra distinzione che a volte mi capita di fare è tra i libri che un autore scrive per sé, e quelli invece scritti per i lettori, con lo scopo principale di avere successo. Non ci vedo una differenza di qualità a priori in questo, ci sono libri votati al successo che sono dei grandi romanzi: il primo esempio che mi viene in mente è In nome della rosa di Umberto Eco. Naturalmente, anche autore che secondo me sta scrivendo un libro soprattutto per se stesso, spera poi che sia un successo: ma non è quella la molla che lo spinge a scriverlo.
Tra i libri di grande qualità che trovo scritti per sé forse il mio preferito è un breve romanzo, presumo poco noto: si tratta di Montauk, di Max Frisch. Il libro che davvero avrei voluto scrivere io, sceglierei quello al posto di qualunque altro.
Tra i libri che un autore scrive prima di tutto per sé, io colloco senz’altro Incompletezza, di Deborah Gambetta. Se qualcuno sospetta che ci sia dietro un certo teorema, il sottotitolo toglie ogni dubbio: una storia di Kurt Gödel.
Mi ha molto incuriosito il fatto che una persona senza un background matematico si metta a scrivere un testo su un personaggio certamente molto importante, ma non così noto al grande pubblico, come ad esempio Einstein, Nash, Oppenheimer, lo stesso Turing. Quindi me lo sono caricato sul Kindle e ho cominciato a leggerlo.
Un libro pieno di sorprese. Mi ha affascinato questo intreccio che l’autrice fa tra la propria vita, la vita di Gödel, e i suoi risultati. Le pagine alternano ricordi e sensazioni personali a vicende che riguardano Kurt e tutto quello attorno a lui, e sono inframezzate da poderosi discorsi sulla logica e la teoria degli insiemi del tempo. Se questo muoversi tra tre piani ha veramente fascino (non ricordo un libro che faccia lo stesso, mescolando matematica rigorosa a fatti personali e fatti personali del protagonista dei risultati di cui si parla), c’è un altro aspetto che davvero mi colpisce: l’audacia, la forza, la determinazione di chi scrive di qualcosa che, al momento di concepire il romanzo, non sa nemmeno che cosa sia. E quel qualcosa non è questione di poco conto, perché affronta quel che c’è all’epoca attorno a un risultato gigantesco e alle sue conseguenze nel mondo della filosofia, della logica e della matematica. Il teorema di incompletezza viene dall’autrice storicizzato con grande competenza in un ambito molto vasto, che passa da Cantor, Hilbert e Zermelo; non solo, la sua dimostrazione viene discussa in grande dettaglio. Come non ammirare il coraggio di chi prova a spiegare, anche a un pubblico di non specialisti, un risultato i cui dettagli tecnici sono particolarmente difficili? Da dove nasce questa forza? L’autrice parla di una vera ossessione nel voler capire questo teorema e il suo sfondo culturale, lo stesso tipo di ossessione che in qualche modo ha spinto Kurt alla ricerca dei suoi risultati. Ma l’ossessione non basta a spiegare il romanzo: voler capire è un passo che precede, e di molto, l’idea di volerne, e soprattutto saperne, parlare. Forse l’autrice lo fa anche perché pensa di aver contratto un debito con se stessa, dopo aver dedicato così tanto tempo allo studio di questo gigantesco risultato: il fatto di averlo fatto, mostra un coraggio straordinario e un talento fuori del comune.
Ma il libro di Deborah Gambetta non è solo questo, è anche un romanzo molto ben scritto, molto ben architettato, e che parla di matematica con così grande competenza e disinvoltura. Trovo quindi del tutto naturale che sia stato selezionato per la dozzina finalista del premio Strega.
Dopo essermi addentrato in questo romanzo poderoso, ricco e così ben scritto, dopo aver (in parte) conosciuto la sua autrice tramite il suo stesso racconto, non posso che fare il tifo per un suo grande successo. E concludo osservando che lei ricorda più volte quanto Gödel insistesse che fossero i suoi risultati a parlare per lui: forse Deborah ci dice che questo libro è anche il suo modo di parlarci di sé.
Ho trovato in Internet un articolo piuttosto vecchio (Febbraio 2012) che racconta una storia che qui ho già riportato, ma è una storia talmente bella che vale la pena risentirla. Il link è questo,
https://www.nbcnews.com/id/wbna46448895
Qui ne riporto una mia traduzione, sperando che qualcuno possa gradire la cosa.
Rick Ruzzamenti ammette di essere un po’ impulsivo. Di origine cattolica, si è convertito al buddismo per un’illuminazione improvvisa. Ha sposato una donna vietnamita che aveva appena conosciuto. E un anno fa ha deciso d’impulso di donare il suo rene sinistro a uno sconosciuto.
Nel febbraio 2011, l’impiegata dello studio di yoga del signor Ruzzamenti gli disse che aveva recentemente donato un rene a un amico malato che aveva incontrato da Target. Il signor Ruzzamenti, 44 anni, non aveva mai donato il sangue, ma la storia lo affascinò a tal punto che due giorni dopo chiamò il Riverside Community Hospital per chiedere come avrebbe potuto fare la stessa cosa.
Dall’altra parte del Paese, a Joliet, Donald C. Terry Jr. aveva urgentemente bisogno di un rene. Da quando gli era stata fatta una diagnosi di malattia renale legata al diabete, a circa 45 anni, aveva sopportato per quasi un anno il bruciore, il gonfiore e la noia della dialisi. Poiché nessuno in famiglia era disposto o in grado di donargli un rene, i medici lo avevano avvertito che ci sarebbero voluti cinque anni per scalare la lista d’attesa per un organo da un donatore deceduto.
“È stato come essere condannato alla prigione”, ha ricordato Terry, ‘come se avessi fatto qualcosa di sbagliato nella mia vita e questo fosse il risultato’.
Il 20 dicembre, quando l’alba si è fatta gelida su Chicago, il signor Terry ha ricevuto un rene grassoccio e di colore rosato per mezzo di un trapianto effettuato al Loyola University Medical Center. Non l’ha ricevuto dal signor Ruzzamenti, almeno non direttamente, ma i due uomini saranno legati per sempre: sono stati il primo e l’ultimo paziente della più lunga catena di trapianti di reni mai realizzata, che ha collegato 30 persone disposte a rinunciare a un organo con 30 che avrebbero potuto morire senza.
A rendere possibile la catena di 60 operazioni è stata la volontà di un buon samaritano, il signor Ruzzamenti, di donare il primo rene senza aspettarsi nulla in cambio. Lo slancio è stato poi alimentato da un mix di altruismo e interesse personale tra i donatori che hanno donato un rene a un estraneo dopo aver saputo di non poterlo donare a una persona cara a causa di gruppi sanguigni o anticorpi incompatibili. Ai loro cari, a loro volta, sono stati offerti reni compatibili come parte dello scambio.
La catena 124, come è stata definita dal National Kidney Registry (Registro nazionale dei reni), ha richiesto un coordinamento costante per quattro mesi tra 17 ospedali in 11 Stati. È nata da innovazioni nel campo dell’abbinamento computerizzato, della tecnica chirurgica e della spedizione degli organi, oltre che dalla determinazione di un uomo d’affari di Long Island di nome Garet Hil, che si è ispirato alla malattia della propria figlia per rafforzare il concetto di “pagare in futuro”.
Il dottor Robert A. Montgomery, chirurgo pioniere dei trapianti presso l’ospedale Johns Hopkins, che non era coinvolto nella catena, l’ha definita un’“impresa epocale” che ha dimostrato un potenziale di grande trasformazione del settore degli scambi di reni. “Stiamo realizzando il sogno di estendere il miracolo del trapianto a migliaia di altri pazienti ogni anno”, ha dichiarato.
La catena è iniziata con un algoritmo e un altruista. Nel corso dei mesi si è spezzata più volte, sospendendo i destini di coloro che si trovavano lungo la linea fino a quando il signor Hil non è riuscito a riparare la falla. Alla fine, è riuscito a trovare le corrispondenze tra i pazienti i cui anticorpi avrebbero causato il rigetto degli organi dalla maggior parte dei donatori.
Finora, pochi dei donatori e dei riceventi conoscevano i rispettivi nomi. Ma 59 dei 60 partecipanti hanno acconsentito a farsi identificare dal New York Times e a raccontare le storie, ognuna con sfumature diverse, che alla fine li hanno uniti.
Nonostante una rottura molto complicata, un uomo del Michigan ha accettato di donare un rene alla sua ex fidanzata per il bene della loro figlia di 2 anni. Una donna di Toronto ha donato per il suo cugino di quinto grado di Bensonhurst, Brooklyn, dopo averlo incontrato per caso in Italia ed essere rimasta in contatto per lo più tramite messaggi.
I figli hanno donato per i genitori, i mariti per le mogli, le sorelle per i fratelli. Uno studente texano di 26 anni ha donato un rene per uno zio californiano di 44 anni che vedeva raramente. A San Francisco, una 62enne sopravvissuta a un linfoma di Hodgkin al quarto stadio ha donato per suo genero.
Il 15 agosto, il rene del signor Ruzzamenti è volato verso est su un volo Continental da Los Angeles a Newark ed è stato portato d’urgenza al Saint Barnabas Medical Center di Livingston, N.J. Lì è stato impiantato nell’addome di un uomo di 66 anni.
La nipote dell’uomo, un’infermiera di 34 anni, avrebbe voluto donargli il suo rene, ma il suo sangue di tipo A era incompatibile con quello del paziente, di tipo 0. Così, in cambio del dono del signor Ruzzamenti, accettò di far spedire il suo rene all’ospedale dell’Università del Wisconsin a Madison per il trapianto di Brooke R. Kitzman. È stato l’ex fidanzato della signora Kitzman, David Madosh, ad accettare di donare un rene per suo conto nonostante la loro tempestosa separazione.
Il rene del signor Madosh è volato a Pittsburgh per Janna Daniels, che ha subito il trapianto all’Allegheny General Hospital. Il marito Shaun, meccanico, ha inviato il suo rene a Mustafa Parks, giovane padre di due figli, allo Sharp Memorial Hospital di San Diego.
La catena si è allungata e i reni sono volati da una costa all’altra, congelati in scatole di cartone dotate di dispositivi GPS e stivati su aerei commerciali.
In un sistema costruito sulla fiducia, a un atto di fede ne seguiva un altro. L’onere di programmare le operazioni in tutto il Paese, per evitare che i donatori dovessero viaggiare, significava che le operazioni non erano sempre simultanee o addirittura sequenziali. Il rischio più incombente era che i donatori rinunciassero una volta che i loro cari avessero ricevuto i reni.
Dopo che John A. Clark di Sarasota, in Florida, ha ricevuto un trapianto il 28 settembre al Tampa General Hospital, sua moglie, Rebecca, ha dovuto aspettare 68 giorni prima che arrivasse il suo turno di continuare la catena. La signora Clark ha detto che le è passato per la testa di tirarsi indietro, ma ha respinto la tentazione.
“Credo nel karma”, ha detto la Clark,” e sarebbe stato un karma davvero negativo. C’era qualcuno là fuori che aveva bisogno del mio rene”.
Un organo da risparmiare
È considerata una stranezza dell’evoluzione il fatto che gli esseri umani abbiano due reni, quando ne hanno bisogno di uno solo per filtrare i rifiuti e rimuovere i liquidi in eccesso dal corpo. Tuttavia, quando i reni si guastano, a causa del diabete, dell’ipertensione o di disturbi genetici, tendono a guastarsi in tandem.
Per molti pazienti renali la morte può sopraggiungere nel giro di poche settimane se non vengono depurati dal sangue attraverso la dialisi. Il processo dura quasi quattro ore, tre volte alla settimana, e lascia molti di loro troppo spossati per lavorare. Solo la metà dei pazienti in dialisi sopravvive più di tre anni.
Molti dei 400.000 americani legati alla dialisi sognano un trapianto per tornare alla normalità. Ma l’aumento della domanda di reni più veloce del numero di nuovi donatori, quindi le attese si allungano. Mentre circa 90.000 persone sono in fila per un rene, meno di 17.000 ne ricevono uno all’anno e circa 4.500 muoiono in attesa, secondo lo United Network for Organ Sharing, che gestisce la lista d’attesa per conto del governo.
Solo un terzo dei reni trapiantati proviene da donatori viventi, ma sono ambiti perché in genere durano più a lungo dei reni da cadavere. Per i reni trapiantati nel 1999, il 60% degli organi provenienti da donatori viventi era ancora funzionante dopo 10 anni, rispetto al 43% degli organi provenienti da donatori deceduti.
Sebbene sia possibile trapiantare altri tessuti viventi (fette di pancreas, fegato e intestino, midollo osseo e lobi di polmone), i reni sono particolarmente adatti perché i donatori ne hanno di scorta e le operazioni hanno quasi sempre successo.
Un motivo per cui non c’è un maggior numero di donazioni di reni da vivente, tuttavia, è che circa un terzo dei candidati al trapianto con un donatore disponibile scopre di essere immunologicamente incompatibile. Alcuni, a causa di precedenti trapianti, trasfusioni di sangue o gravidanze, possono aver sviluppato anticorpi che li rendono altamente suscettibili di rifiutare un nuovo rene.
Utilizzando una tecnica di filtraggio del sangue nota come plasmaferesi, i medici possono ora ridurre le probabilità che un ricevente rifiuti un rene incompatibile. Ma le procedure sono impegnative e costose.
Le catene domino, tentate per la prima volta nel 2005 alla Johns Hopkins, cercano di aumentare il numero di persone che possono essere aiutate da donatori viventi. Nel 2010, le catene e altre forme di scambio accoppiato hanno portato a 429 trapianti. I modelli informatici suggeriscono che si potrebbero ottenere da 2.000 a 4.000 trapianti in più all’anno se gli americani fossero più informati su questi programmi e se ci fosse un pool nazionale di tutti i donatori e riceventi idonei.
Questi trapianti fanno risparmiare denaro e vite umane. Il programma federale Medicare, che paga la maggior parte dei costi di trattamento per le malattie renali croniche, risparmia una cifra stimata tra i 500.000 e il milione di dollari ogni volta che un paziente viene rimosso dalla dialisi grazie a un trapianto da donatore vivente (le operazioni costano in genere dai 100.000 ai 200.000 dollari). La copertura delle malattie renali costa al governo più di 30 miliardi di dollari all’anno, circa il 6% del budget di Medicare.
La dialisi, che negli Stati Uniti viene quasi sempre somministrata in ambulatorio, riduce la produttività degli operatori e dei pazienti. Quasi due anni fa, Kent Bowen, 47 anni, di Austin, Texas, ha rinunciato al suo lavoro di appendi grondaie e a gran parte della sua libertà per poter assistere a casa a sua madre, Mary Jane Wilson, in dialisi.
Prima di donarle un rene come parte della catena il 7 dicembre presso il Methodist Hospital di Houston, il signor Bowen ha detto di non vedere l’ora non solo di aiutare sua madre, ma anche di fare una gita di pesca a lungo rimandata.
“In realtà”, ha detto, ‘donare un rene è un piccolo prezzo da pagare per riavere la mia vita’.
Comprendere il dolore
Garet Hil e sua moglie Jan non si riprenderanno mai del tutto dalla notte di neve del febbraio 2007, quando portarono la figlia di 10 anni a casa con sintomi influenzali e ne uscirono con una diagnosi scioccante di nefroftisi, una malattia genetica che provoca la perdita dei reni. Non potevano pensare di sacrificare la sua giovinezza alla dialisi.
Poiché il signor Hil e sua figlia avevano lo stesso gruppo sanguigno, pensava di poterle donare uno dei suoi reni. Ma due giorni prima dell’intervento, i medici hanno annullato l’operazione dopo aver scoperto che la figlia aveva sviluppato anticorpi che avrebbero probabilmente causato un rigetto.
Jan Hil e altri sei membri della famiglia si sono offerti volontari, ma anche loro sono stati esclusi. Il signor Hil e sua figlia si iscrissero a diversi registri che avevano iniziato a organizzare scambi di reni, ma i gruppi erano piccoli e non trovarono mai un donatore compatibile. Fortunatamente, uno dei nipoti del signor Hil si sottopose al test e fu in grado di donare.
Dopo il successo del trapianto, il signor Hil, dirigente d’azienda di lunga data, non riusciva a liberarsi della frustrazione per l’assenza di un registro più efficace per la donazione di reni accoppiati. “I sistemi di scambio esistenti non erano di livello industriale”, ha detto.
Alla fine del 2007, i coniugi Hil hanno costituito il National Kidney Registry e hanno affittato un ufficio in una vecchia casa di legno a Babylon, N.Y. La coppia ha investito circa 300.000 dollari per avviare il progetto e il signor Hil, che oggi ha 49 anni, ha gestito il registro senza uno stipendio.
“L’obiettivo era molto semplice: far trapiantare tutti in meno di sei mesi se si disponeva di un donatore vivente”, ha detto. “Una delle cose che ci hanno spinto è stata l’enormità del problema. L’altra cosa che ci ha spinto è che capivamo il dolore di trovarsi in quella situazione”.
Hil si è rivelato la persona giusta per infondere alla nascente scienza dello scambio di reni una scintilla imprenditoriale. Ex ranger di ricognizione dei Marines con un master alla Wharton School, aveva gestito una serie di società di dati e logistica a Boston e New York e conosceva il mondo dell’informatica e della finanza.
Aveva guadagnato molti soldi e poteva abbandonare la carriera per dedicare al Registro il suo tempo e le risorse della sua società di consulenza software. Aveva una formazione in matematica quantitativa e una grinta sufficiente per sfogliare i testi di medicina sulla compatibilità degli organi. Nel tempo, ha guidato un team nella progettazione di un software sofisticato che si è evoluto per costruire catene sempre più lunghe.
Bello come un eroe Disney, con una scollatura del mento e folti capelli ondulati, il signor Hil ha commercializzato il suo registro agli ospedali con PowerPoint e passione. Inizialmente il mondo dei trapianti lo considerava un intruso. Ma ora ha convinto 58 dei 236 centri di trapianto di rene del Paese, compresi molti dei più grandi, ad alimentare il suo database con informazioni sulle coppie di candidati al trapianto e sui loro donatori incompatibili.
A partire dalle 5 del mattino di ogni giorno lavorativo, il signor Hil manipola diverse centinaia di coppie in catene di trapianti con pochi clic del mouse. L’anno scorso ha organizzato 175 trapianti in questo modo, compresi i 30 della catena 124, più di qualsiasi altro registro. In media, i pazienti hanno ricevuto il trapianto circa un anno dopo essere stati inseriti nella lista.
Lo stesso anno in cui la figlia del signor Hil si è ammalata, il Congresso ha modificato la legge nazionale sui trapianti di organi per chiarire che gli scambi abbinati non violano le leggi federali contro la vendita di organi. La benedizione di Washington ha fatto cadere le resistenze di molti ospedali proprio quando il Registro nazionale dei reni stava per aprire i battenti.
La catena in evoluzione
Sebbene il primo rene vivo sia stato trapiantato nel 1954 a Boston, passarono tre decenni prima che un chirurgo della Stony Brook University di nome Felix T. Rapaport teorizzasse per la prima volta lo scambio di reni in un articolo del 1986. I chirurghi coreani portarono a termine i primi scambi nel 1991, ma negli Stati Uniti non furono tentati con successo per quasi un altro decennio.
I semplici scambi tra due coppie, con operazioni eseguite nello stesso ospedale e nello stesso giorno, si sono rapidamente evoluti in scambi complessi tra tre coppie, poi quattro e infine sei.
Poi, nel 2007, un chirurgo dei trapianti dell’University of Toledo Medical Center, il dottor Michael A. Rees, ebbe un’ importante intuizione. Se uno scambio inizia con un buon samaritano che dona a un estraneo, e se le operazioni non devono essere simultanee, una catena potrebbe teoricamente continuare a crescere, limitata solo dal pool di donatori e riceventi disponibili. Nel 2009 il dottor Rees ha riferito di aver messo insieme una catena di 10 trapianti.
Hil ha colto l’idea e si è messo a costruire un algoritmo che permettesse un numero ancora maggiore di trapianti. Oggi il suo pool è composto in genere da 200-350 coppie donatore-ricevente. Questo è sufficiente per generare circa un googol (10 alla centesima potenza) di possibili catene fino a 20 trapianti se tutte le coppie sono compatibili, ha detto Rich Marta, progettista senior del software del registro.
Il programma elimina rapidamente gli abbinamenti che non funzionano a causa di gruppi sanguigni o anticorpi incompatibili, o perché un candidato al trapianto insiste che il donatore abbia un’età inferiore a una certa soglia o che abbia una stretta corrispondenza immunologica. Quindi assembla fino a un milione di combinazioni possibili a una velocità di 8.000 al secondo.
L’algoritmo classifica le possibili combinazioni in base al numero di trapianti che consentirebbero, dando peso alle catene che trovano reni per pazienti difficili da abbinare e per quelli che hanno aspettato a lungo.
Esistono diversi registri come quello del signor Hil, ognuno con un approccio diverso. In gran parte non regolamentati dal governo, essi pongono questioni delicate sulla supervisione e sull’etica, compresa la modalità di assegnazione dei reni. Alcune società mediche si riuniranno a marzo per cercare un consenso su questa e altre questioni relative agli scambi accoppiati.
Il signor Hil conosce i pazienti del suo pool solo con nomi in codice e lascia tutte le interazioni personali agli ospedali. Tiene in funzione diverse catene alla volta e dice che occuparsene è come giocare a scacchi tridimensionali.
La catena 124 comprendeva anche una coppia immunologicamente compatibile. Josephine Bonventre, un’agente immobiliare di 40 anni di Toronto con sangue di tipo 0, avrebbe potuto donare un rene direttamente al suo cugino di quinto grado, Cesare Bonventre, un operaio di Brooklyn di 27 anni con sangue di tipo B.
Ma un secondo livello di corrispondenza richiede la sincronizzazione di sei antigeni, una serie di proteine che determinano la compatibilità. Unendosi alla catena e donando a valle, il 6 dicembre presso il NewYork-Presbyterian Hospital, Josephine ha permesso a Cesare di ottenere una corrispondenza più forte: tre antigeni invece di uno. La sua donazione come tipo 0 ha dato il via agli 11 trapianti finali.
Il registro non ha fatto pagare i centri di trapianto per i suoi servizi fino al 2010, quando il signor Hil ha imposto delle tasse per aiutare a coprire i costi. Ora gli ospedali pagano le quote associative e una tassa di 3.000 dollari per ogni trapianto, rimborsata da molte assicurazioni private ma non da Medicare. I destinatari del trapianto devono essere assicurati.
Ogni anno le catene del registro si sono allungate, con la Catena 124 che ha superato il precedente record di sette trapianti. “Abbiamo appena scalfito la superficie”, ha detto Hil, che indossa gemelli d’oro a forma di rene.
Tutti noi abbiamo nella nostra memoria giornate che, senza annoverare avvenimenti eccezionali, si stampano nella nostra mente per sempre, e tornano di tanto in tanto. Questa che racconto adesso risale a trent’anni fa, eppure è sempre lì, e chissà perché in questo periodo mi capita di tornarci coi pensieri.
Ero con la famiglia a Newport, Oregon. Ne venivamo da due anni in California, eravamo tornati lì altri tre mesi dopo un anno di rientro, e il viaggio nel Nord della California e in Oregon rappresentava la vacanza conclusiva. Passando dal porto, ho visto un negozietto dove affittavano la “cage” per la pesca dei granchi, con annesso tutto l’occorrente. Subito dopo il pranzo in campeggio, parto coi due figli grandi, Andrea di 9 anni e mezzo ed Emanuele di 4, per provare questo tipo di pesca. Ci forniscono di tutto l’occorrente, compreso un pezzo di pesce surgelato come esca e lo strumento per misurare la lunghezza dei granchi catturati. Le leggi lì sono molto severe, si possono prendere solo quelli di un certi tipo, solo i maschi, e solo se raggiungono una certa lunghezza. Partiamo, andiamo sul molo, e cominciamo le operazioni. In acqua non si vede nulla, non ci sono segni se i gamberi arrivano o no, bisogna tirare su la gabbia ogni tanto. Per mezzora non succede nulla, non vediamo nemmeno un granchio, cominciamo a essere un po’ frustrati. Si avvicina una persona anziana con la moglie, inizia a parlare con Andrea, che ovviamente manovra la gabbia. Io capisco solo “Vietnam veteran”, ma Andrea apparentemente capisce, perché mi spiega che ci sono le foche che mangiano i granchi, e che bisogna essere più rapidi a tirare su (io ovviamente gli dicevo di avere pazienza). E, miracolo, cominciamo a vedere granchi! Dopo un po’ il veterano se ne va, e arriva qualche turista. Andrea acconsente a lasciar provare me, perché decide che per lui è più divertente fare l’esperto pescatore di granchi, e spiegare ai turisti come si pescano, che si deve fare e perché, e quanto siano dispettose le foche. Io intanto ogni tot tiro su la gabbia, dalla quale escono spesso granchi che corrono qui e là. Si credono di riuscire a scappare, ma c’è Emanuele, che ha imparato dal veterano come si prendono in mano, che li cattura velocissimo e poi ne lancia la maggior parte in acqua, dicendo, alternativamente: It’s a girl! Too short! Wrong type! Siamo andati avanti almeno un paio d’ore, accompagnati da un rumore continuo come di tuono. Stava facendo quasi buio, quando riportiamo la gabbia e lo strumento misuratore al negozio, e decidiamo di provare a seguire il suono per cercare di capire che cosa lo causasse: arriviamo a una spiaggia letteralmente coperta da leoni di mare, che evidentemente conversavano. Rientriamo in campeggio, e mi dico che no, non è stato un sogno stravagante, ma solo una giornata davvero particolare.
Stamattina mi sono svegliato con in testa il concetto di fake news in matematica. Ho deciso di riflettere sull’idea se anche in matematica esistono fake news, magari molto radicate e quindi difficili da smontare, e sono arrivato alla conclusione che a mia conoscenza ce ne sono almeno due. Le descrivo brevemente.
La prima.
Consideriamo una somma infinita come questa:
1-(1/2)+(1/3)-(1/4)+…
C’è un accordo generale sul fatto che questa addizione di infiniti termini abbia un risultato finito, pare lo garantisca uno di una certa importanza, di nome Leibniz, e qualcuno arriva a dire che sa benissimo quanto vale quella somma, qualcosa tipo ln 2.
E fino a qui nessun problema. Questi nascono per il fatto che qualcuno afferma che se io comincio a scambiare tra loro un po’ di addendi, cioè magari comincio a fare
1+(1/3)-(1/2)-(1/4)+…
allora potrebbe venire un risultato diverso! Ma si sa che nel tempo le fake si perfezionano, e questa ora ha assunto la seguente grottesca formulazione:
Prendi una serie qualsiasi, come quella di sopra, che ha caratteristica di convergere, ma che è infinita se invece di alternare i segni li prendi tutti col segno più (si sa che 1+(1/2)+(1/3)+(1/4)+… fa proprio più infinito), fissa un qualunque numero reale, o anche +infinito e mettici pure meno infinito, e chiamalo a; allora esiste un modo di riordinare (cioè cambiare l’ordine degli addendi) della somma in modo che il risultato finale sia a.
Beh, è stupefacente che ci sia gente che crede a una balla simile.
La seconda fake, a parole si può dare così (dopo una formulazione più matematica)
Prendo il quadrato [0,1]x[0,1], e a ogni suo punto associo o il valore 0 o il valore 1. Con il vincolo seguente: se fisso un segmento verticale qualsiasi del quadrato, gli 0 devono essere pochi, la misura dei punti dove metto 1 deve essere 1, cioè la misura di tutto il segmento. Dopo aver fatto questa operazione, vi sfido a tracciare una linea continua (che sia un grafico) dentro il quadrato e a passare in almeno un punto dove ci sia un 1. Ovviamente ci provate con aria di sufficienza, gli 0 sono talmente pochi… ma il vostro primo tentativo va a vuoto. Ok, pensate, avete avuto una botta di sfiga, ci provate riprovate, ma niente da fare! Proprio non ci riuscite, accidenti!
Si possono affermare cose più ridicole?
Adesso la stessa fake col formalismo matematico.
Esiste una funzione f(x,y) definita nel quadrato [0,1]x[0,1], e con le proprietà seguenti:
1) per ogni fissato x, f(x,y)=0 su un insieme al più numerabile;
2) f(x,y(x))=0 per ogni y(x) da [0,1] in [0,1] e continua.
Si può affermare cose più ridicole?
Naturalmente, dietro a queste storielle, che possono venire in mente solo a un matematico in quarantena (e senza ragazzini in casa), ci sta sempre una morale, ma di questa ne parliamo tra qualche giorno…
E’ notizia di stanotte che è morto John H. Conway, matematico davvero geniale. I suoi contributi sono stati fondamentali in molti campi. Un gioiello tra i suoi risultati è una teoria di tipo assiomatico, che riguarda certi tipi di giochi.
Tempo fa ho scritto con l’amico Rosolini e pubblicato con Franco Angeli un libretto, Matematica al bar. Nel capitolo quinto si dialoga, sottolineo al bar, di questa teoria di Conway.
Qui lascio il link al nostro capitolo, se qualcuno vuol dare un’occhiata.
Nel nostro dialogo citiamo anche un libretto di Knuth, Numeri surreali, che parla di questa teoria in forma di racconto, e diciamo una cosa che era vera allora, ma non lo è oggi: che purtroppo questo delizioso libretto non è stato tradotto in Italiano. Oggi la traduzione è disponibile (fatta da un altro amico, Francesco Oliveri) e pubblicato da Franco Angeli https://www.francoangeli.it/Ricerca/scheda_libro.aspx?id=23192.
Può capitare di essere un week end di Maggio a Cesenatico, e di vedere in una cittadina altrimenti poco frequentata, data la stagione, girare per le strade tanti ragazzi e ragazze. Non è questa la cosa strana, strano è quel che senti, se qualcuno parla a voce più alta del solito: a me veniva due alla a meno uno più due alla b -1=5…non sono certo i discorsi che ti aspetti sentire in una località di mare da ragazzi a passeggio! Che succede allora a Cesenatico un certo week end di Maggio? Succede che un grande numero di ragazzi si reca lì, accompagnati dai loro professori, per le finali delle Olimpiadi di matematica. E’ un evento interessante e molto importante, ci sono molte persone coinvolte e che lavorano, volontariamente, alla riuscita di questa manifestazione. Gli eventi a Cesenatico sono la conclusione di un lungo processo di selezione, processo che si sviluppa in tutta Italia, coinvolgendo un numero sorprendente di ragazzi e delle loro famiglie. Sono utili queste Olimpiadi della matematica: al di là del fatto che due tra i più famosi matematici italiani odierni (uno è Figalli, medaglia Fields, l’altro De Lellis, che ha una posizione Princeton, IAS) mi hanno detto esplicitamente che fare bene alle Olimpiadi è stato per loro il primo passo nella decisione di diventare matematici di professione, l’esperienza che fanno tanti ragazzi è certamente molto formativa. A me piace particolarmente l’idea della gara a squadre. La scuola di ogni ordine e grado non incentiva, di solito, il lavoro di equipe, ma questo è quel che la maggioranza delle persone fa quando va a lavorare, e quindi questo lavoro in team è un esperienza preziosa…
Quest’anno l’Unione Matematica Italiana mi ha fatto l’onore di chiedermi di tenere una conferenza per gli insegnanti (mentre gli alunni erano in gara), molto in tema visto che mi invitano a parlare di giochi.
Ho promesso ai presenti che avrei messo sul sito le slides della mia presentazione: lo faccio ora, con consueto ritardo.
Pensare ingenuo, pensare strategico
La teoria dei giochi vuole affrontare lo studio di problemi che coinvolgono più persone da un punto di vista strategico. Ora strategico è anche una bella parola, ma occorre riempirla di significato, altrimenti si fa retorica… Per questo chiarisco l’affermazione precedente, attraverso un esempio semplice, anche per mostrare come la teoria ci permetta di tirare spesso conclusioni ovvie, ma inaspettate prima di fare un’analisi della situazione. Del resto questa è una delle caratteristiche principali della teoria dei giochi: proporre soluzioni che ci paiono ovvie, ma solo dopo che ci sono state proposte. Ecco dunque l’esempio. Sono in aula, e propongo ai mei tre (quel che importa è che siano dispari, per evitare possibili pareggi, qui scrivo tre per semplificare le cose, di solito ne ho molti di più!) alunni di scegliere tra le due opzioni: un compito molto facile, o un altro fattibile ma assai più difficile. Avete capito subito che chi studia giochi ama mettere le persone in imbarazzo… i miei tre allievi sanno che se chiedono il compito difficile ci guadagnano in reputazione, ma nello stesso tempo un compito più facile è una tentazione irresistibile. E dunque che fare? Visto che chiederò a ognuno di loro di dire pubblicamente e in sequenza che cosa propongono, sarà più conveniente essere il primo interpellato, oppure l’ultimo? E come andrà a finire? L’intuizione ci dice che alla fine darò loro il compito più facile, ma che cosa sperare, essere chiamati per primo, per secondo o per terzo? E’ un test che mi diverto a fare spesso, e che in genere dà lo stesso risultato: la maggioranza vorrebbe essere l’ultimo a votare, qualcuno, molto pochi, vorrebbe essere il secondo, altri il primo. Questo gioco si può facilmente analizzare costruendo il suo albero, e questo ci servirà a capire come generalizzare il ragionamento per portarlo a situazioni più complesse, ma qui possiamo capire la risposta basandoci su un semplice ragionamento. Lasciando perdere chi vorrebbe essere il secondo a votare-chi sceglie questa opzione si basa esclusivamente su qualche suggestione psicologica- e proviamo a immaginare su che ragionamento si basa chi vorrebbe decidere per ultimo. Io credo che sia questo: dal momento che so che i miei compagni, come me, non hanno nessuna voglia di affrontare un compito difficile, meglio che votino prima loro. Voteranno per il compito facile, al mio turno questa opzione ha la maggioranza, quindi io posso votare quel che voglio, e quindi posso fare la mia bella figura!
Perché è sbagliato questo ragionamento, che ho visto fare persino in occasioni di certe delicate decisioni accademiche (voto per ultimo perché a quel punto i giochi saranno fatti, quindi non sono costretto a votare quel che voglio, ma posso votare quel che voglio che gli altri credano sia la mia scelta preferita)?
Perché si può rovesciare completamente! Che succede infatti se il primo annuncia che sceglie il compito più difficile? Succede che gli altri due sono costretti a votare per il compito più facile, perché tra le due alternative non c’è paragone su quel che preferiscono fare… Dunque il primo forza gli altri a fare una scelta, ottenendo così il massimo risultato possibile per sé.
Questo ragionamento si può generalizzare. Ogni volta che un certo numero di persone devono prendere decisioni in sequenza, almeno teoricamente si può procedere andando a vedere come si comporteranno i giocatori che devono prendere la decisione finale. Questa informazione è utile per i giocatori che devono prendere una decisione subito prima di quelli che prendono la decisione finale… e così via. Si chiama metodo di induzione a ritroso. Questo metodo ci insegna che, molto spesso, nei giochi è meglio essere il primo a muovere. Molto spesso ovviamente non vuol dire sempre…ad esempio nessuno vorrebbe essere il primo a giocare a sasso carta forbici! Ma ad esempio nel gioco chiamato del Nim, che consiste nell’avere un certo numero di mucchietti di carte sul tavolo, e i due giocatori a turno tolgono un certo numero di carte dallo stesso mucchietto, e che pulisce il tavolo vince, ebbene mettendo un numero a caso di mucchietti ciascuno con un numero a caso di carte, la probabilità che il primo vinca è molto alta: nel caso di due mucchietti, il secondo vince solo se i due mucchietti hanno lo stesso numero di carte.
«Non si tratta di scegliere quei volti che, giudicati obiettivamente, sono realmente i più graziosi, e nemmeno quelli che una genuina opinione media ritenga i più graziosi. Abbiamo raggiunto il terzo grado, nel quale la nostra intelligenza è rivolta ad indovinare come l’opinione media immagina che sia fatta l’opinione media medesima. E credo che vi siano alcuni i quali praticano il quarto, il quinto grado e oltre» .
Chi scrive queste parole è l’economista J.M. Keynes, uno dei più influenti del secolo scorso, il riferimento principale per chi oggi non ama le politiche del rigore. Keynes, detto per inciso, non ha vinto il premio Nobel per l’Economia, ma ha avuto importanti onorificenze, quali quella Baronetto della Corona Britannica e Barone Keynes di Tilton, Ufficiale dell’ordine di Leopoldo (un’onorificenza belga), ma soprattutto quella di Compagno dell’Ordine del Bagno, che non sarà il Nobel, ma a me sembra davvero bellissima, e probabilmente è molto prestigiosa… Ma a parte questo folklore, a che cosa si riferisce Keynes, con le parole di sopra, e perché sono interessanti per la teoria dei giochi? Si riferisce a un immaginario concorso di bellezza, in cui i votanti riceveranno un piccolo premio se riescono a indovinare chi sarà la donna più votata. Keynes osserva che l’approccio più ingenuo porterebbe a votare quella che ci piace di più, ma che per vincere non bisogna comportarsi così: ed ecco che oggi, come lui osserva, si è arrivati a un terzo livello di pensiero, per cui “la nostra intelligenza è rivolta ad indovinare come l’opinione media immagina che sia fatta l’opinione media medesima”.
In teoria dei giochi assumiamo, almeno quando poniamo i suoi fondamenti, che i giocatori non abbiano nessun limite al livello di pensiero cui possono arrivare: eccone un esempio tanto semplice quanto carino. Che sia carino me lo dimostra il fatto che lo faccio spesso con i ragazzi delle scuole e loro si divertono moltissimo a farlo, soprattutto quelli che vincono.
Il gioco è il seguente: invito tutti i presenti a scrivere il loro nome e cognome su un foglio, oltre a un numero compreso tra 1 e 100. Poi ritiro tutti i foglietti e faccio calcolare da qualcuno la media dei numeri ottenuti; se i presenti non sono molti, con un telefonino a disposizione ottengo una risposta in meno di 5 minuti.
Ora si tratta di stabilire chi vince (o i vincitori, possono essere più di uno). Bene, detta M la media calcolata precedente, vince chi si avvicina maggiormente alla metà di M.
Dunque, che scrivereste voi sul vostro foglietto, e che cosa scrive il teorico dei giochi? Io non posso sapere che cosa scrivereste voi, ma posso spiegarvi che cosa scrive il teorico dei giochi, che certamente non vince, ma avrà almeno la soddisfazione di scrivere la risposta giusta. Ricordiamoci che il teorico dei giochi sa di essere una persona perfettamente razionale, ed assume che anche gli altri lo siano.
Ecco allora il ragionamento:
Primo livello di pensiero:
M ovviamente non può essere maggiore di 100, visto che a nessuno è concesso di scrivere un numero maggiore. Dovendo cercare di avvicinarmi alla metà di M, dunque non ha senso scrivere un numero maggiore di 0,5 x 100= 50.
Secondo livello di pensiero:
questo ragionamento viene fatto da tutti i giocatori, per cui nessuno scrive un numero maggiore di 50. Allora in effetti M non può essere maggiore di 50. Dovendo cercare di avvicinarmi alla metà di M, dunque non ha senso scrivere un numero maggiore di 0,5 x (0,5×100) = (0,5)2 x 100= 25
…
Ennesimo livello di pensiero:
questo ragionamento viene fatto da tutti i giocatori, per cui nessuno scrive un numero maggiore del numero k trovato al livello (n-1). Allora in effetti M non può essere maggiore di 0,5 k. Dovendo cercare di avvicinarmi alla metà di M, dunque non ha senso scrivere un numero maggiore di 0,5 x (0,5 k) che con un conto molto semplice si vede essere (0,5)n x 100
Ricordandoci che questo ragionamento siamo in grado di farlo per ogni numero naturale n, e ricordando che (0,5)n diventa sempre più vicino a zero (in termini pomposi si dice che tende a zero quando n tende a più infinito), la risposta inesorabile è quindi che dovremmo scrivere tutti 1, il più piccolo numero che ci è concesso scrivere.
Naturalmente chi scrive 1 può scordarsi di vincere. Una piccola ma interessante osservazione è che ho scelto la regola di avvicinarsi alla metà di M, ma si arriverebbe allo stesso risultato anche se avessi scelto di avvicinarsi a 0,9 M, o anche a 0,99 M. Eppure potete scommetterci che se proponete di moltiplicare M per un numero molto vicino a 1, le risposte medie delle persone saranno ben più grandi di quelle che avrete chiedendo di moltiplicare M per un numero molto vicino a 0.
(La citazione è presa da J.M. Keynes, General Theory of Employment, Interest and Money, Palgrave Macmillan, London 1936; trad.it. Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, a cura di T. Cozzi, Utet, Torino 2006, p. 342).
Che fare se si presentano gli alieni a casa nostra?
Un giorno una rivista ha chiesto a me e ad altri di scrivere 20 righe sul tema: che fare se si presentano gli alieni a casa nostra? Io avevo risposto in questo modo.
Gli alieni si presentano a casa nostra. Che fare? E soprattutto che cosa NON fare? Partiamo da una premessa. Si è verificato un avvenimento che aveva probabilità molto piccola! Questo succede più sovente di quel che immaginiamo, ma in genere le situazioni che tali avvenimenti improbabili ci propongono sono inusuali, e quindi richiedono di riflettere. Quindi l’unica cosa veramente indispensabile da fare è: non dare nulla per scontato. È chiaro che saremo di fronte a esseri super intelligenti, perché non c’è dubbio che arrivano da lontano, e dunque sono stati in grado di fare un viaggio lunghissimo. Siccome ci crediamo anche noi intelligenti, potremmo aspettarci che capiscano i nostri discorsi. Nulla di più sbagliato! Un grande pensatore ci ha insegnato che neppure una cosa semplice come l’aritmetica può certificare la sua completezza e la sua coerenza, figurarsi il nostro pensiero! Non solo, ma l’idea di infinito, che oggi ci è necessaria per una comprensione più profonda delle cose, ha distrutto la comoda credenza che la logica, la semplice logica, sia un linguaggio universale e necessariamente unico. Oggi, sappiamo che si possono utilizzare molteplici logiche, che a volte dicono cose assai diverse…e se le nostre menti intelligenti ma limitate sono capaci di immaginare molte logiche possibili, quanti saranno i modi per esprimersi intelligentemente? Davvero così tanti da non poterli neppure immaginare. Per questo, la nostra intelligenza e quella dell’alieno saranno così diverse da non riuscire a capirsi, almeno all’inizio. Solo se non daremo nulla per scontato avremo una possibilità di dialogo.
Qualche anno fa ho pubblicato un libro pensato e scritto assieme a un amico, Pino Rosolini. Si chiama Matematica al bar. Si parla molto di matematica, ma anche di altro. C’è un pezzo dedicato al talento, in cui mi sono divertito a parlare dei miei idoli sportivi (lui ha parlato meno, è meno appassionato di me di sport). Siccome si parla anche un po’ di Federica Pellegrini, ho chiesto a Pino di estrarre dal libro il capitolo sul talento, come piccolo omaggio all’impresa di Federica di ieri.
MatematicaAlBar_MatematicaSportTalento
Aggiungo oggi, 28 Febbraio 2018, che nel frattempo Roger è tornato numero uno. Per la classifica ATP. Perché per il tennis e chi lo ama, lui è sempre il numero uno.
Su Facebook, strumento peraltro benedetto per molti motivi, i dibattiti, anche tra persone di garbo e di cultura, spesso si riducono a posizioni contrapposte e inconciliabili. Però ci sono argomenti troppo importanti per liquidarli in due battute, o per rischiare di arrabbiarsi con persone che si stimano, perché due battute raramente riflettono la complessità della situazione. L’ultima faccenda che ha sollevato la mia attenzione è quella della ragazza rumena che ha messo dei post su Facebook e per questo si è vista revocare la libertà provvisoria. Questo episodio ha scatenato reazioni, in un senso o nell’altro, direi sempre del tipo o bianco o nero. Non è così. La realtà è complessa, e mai di un colore solo. Allora ci ho pensato un po’ su, e queste sono le mie considerazioni. Che rivolgo soprattutto a quelli che hanno dimostrato molta umana comprensione per la ragazza, con gli altri credo che il confronto sia sostanzialmente inutile, quindi mi interessa poco (ma non è detto, se qualcuno argomenta bene…)
Una delle cose più importanti, secondo me, del buon ragionare è non confondere gli argomenti. Dire cose giuste ma che c’entrano poco con l’argomento in questione secondo me non rafforza gli argomenti…anzi. Allora mi pare che si sia fatta una grande confusione, mettendo assieme tre cose diverse:
- L’entità della pena
- Il regime di semilibertà
- Il comportamento della ragazza durante questo regime.
E’ l’ultimo punto quello cruciale, ma chiarisco un secondo anche la mia opinione sui primi due.
Il primo. Non mi sento in grado di dire, nella maniera più assoluta, se tot anni sono pochi o tanti per una certa condanna. Rilevo solo che alla ragazza sono stati dati due anni in meno del massimo previsto per il delitto da lei commesso. A ragionare terra a terra, mi sembra una sentenza ragionevole. Sarà stato un omicidio preterintenzionale, ma sicuramente le circostanze sono molto aggravanti. Un conto è spingere una persona, un conto è usare un ombrello come una spada ad altezza viso.
Il secondo. Io capisco che si possa anche essere in disaccordo, ma ritengo una conquista di grande civiltà, in ben precise circostanze, usare un atteggiamento intelligente e comprensivo per recuperare le persone. Sia chiaro. Per me è una sciocchezza bella e buona sostenere che il carcere serve per rieducare una persona, o cose simili. Il carcere è, prima di tutto, una forma di difesa della società nei riguardi di chi infrange le sue regole. Se così non fosse, la legge del taglione sarebbe più semplice, diretta, economica. Invece chi ammazza sulla metro colpisce anche me (o anche chi ruba, non paga le tasse, fa falsi in bilancio, sia ben chiaro), perché viola le regole del comportamento che ci siamo dati. Quindi prima di tutto la pena è una punizione, a garanzia di tutti. Però collaborare è un sistema efficiente, per gli individui e per la specie, e quindi ogni volta che si può fare qualcosa per qualcuno che ha sbagliato, trovo che sia nobile, importante, nonché utile, efficiente farlo. Quindi, anche se emotivamente (non ho né prove né statistiche rigorose) ho l’impressione che licenze premio, regimi di semilibertà ecc ecc siano in genere concessi con un po’ di leggerezza, io sono del tutto favorevole a che la pena nel tempo possa evolvere in forme sempre meno costrittive per rendere il meno difficile possibile il reinserimento della persona colpevole nella comunità.
Però non va dimenticato che una persona in questo regime diverso dalla detenzione pura e semplice sta sempre scontando una condanna. Se una persona è condannata a 16 anni, questa è la sua pena. Per me, per noi essa sarà libera, avrà saldato il suo debito, al termine della pena, non prima (in alcune circostanze ammetto che si possa anche decidere che la pena si estingue in anticipo, ma deve essere una decisone ben chiara e soprattutto eccezionale ed eccezionalmente motivata). Prima, se qualcuno con senso di responsabilità vuol decidere che la persona può passare del tempo fuori dal carcere, può stare con i figli, io sono favorevole. Ma questa persona non è una persona libera. Per cui io non credo che ad essa vadano negate piccole grandi gioie della vita, ma sempre tenendo conto dello stato di persona che sconta una pena. Una tale persona non può essere attiva sui social, non deve andare in tv a farsi intervistare, deve “vivere nascosta” (λάθε βιώσας).
Dopo di che, vorrei aggiungere perché sia ben chiaro, ritengo la ragazza la meno colpevole di tutti di questa situazione; io non posso aspettarmi che una persona con una storia così difficile sia in grado di distinguere con chiarezza quel che può e non può fare: il giudice e il suo avvocato però sì.
Il nostro cervello, quando lo usiamo bene, fa cose bellissime. Per esempio, si accorge che possiamo individuare tanti insiemi di numeri. Il primo è quello dei numeri naturali: 0,1,2,3,… Sono quelli che ci sembrano i più amichevoli, i meno spaventosi, anche se in verità anche loro nascondono talvolta insidie terribili. Però persino gli animali, pare, hanno innato il senso del numero, e noi nasciamo con i numeri dall’1 al 4 (pare, da studi recenti) già codificati nel nostro cervello. Ma certo, nella nostra divorante curiosità, non possiamo accontentarci, ed ecco che ci si presenta alla mente l’insieme dei numeri interi, che comprende i naturali, ma ci aggiunge anche i numeri negativi: una bella astrazione davvero; in natura, fisicamente intendo, non è facile spiegarli, però li possiamo capire abbastanza presto: Matteo, 6 anni, l’altro giorno mi spiegava che prima di 0 ci sono -1,-2,-3,… Mica ci fermiamo qui! Siamo in grado di immaginare anche numeri sotto forma di frazioni. Ci viene molto comodo pensare a 2/3 come un numero, e gli diamo anche un nome importante: numero razionale, non perché sappia fare ragionamenti complicati, ma per un fatto etimologico, razionale da ratio, cioè rapporto: 2/3 è un numero rapporto di due numeri. Ci basta l’insieme dei numeri razionali? O la nostra voglia di capire ci porta a immaginare altri numeri? La risposta è scontata, e ci viene, secondo la leggenda, da Pitagora: certo che no! , il numero radice(2), che rappresenta una cosa concreta (il che ovviamente non è vero, ma se lo diciamo nessuno ce lo contesta…) perché è la lunghezza della diagonale del quadrato di lato unitario, non può essere scritto come rapporto di due numeri interi. Per questo lo chiameremo, come tutti quelli come lui, numero irrazionale: è irrazionale perché non è esprimibile come rapporto. Tra l’altro, piccolo inciso, visto che stiamo parlando di insiemi infiniti, ci potrebbe venire la voglia di porci domande del tipo: ma i numeri razionali sono di più di quelli naturali? Attenti a rispondere! Proprio perché parliamo di insiemi infiniti, occorre definire correttamente che cosa vuol dire che due insiemi hanno lo stesso numero di elementi, o uno ne ha di più di un altro. Comunque, la risposta è no! Tutti i numeri che si possono esprimere come frazioni sono tanti quanti i naturali….la cosa sconvolgente è che invece i numeri reali, che comprendono razionali e irrazionali, sono di più! Se chiedete a uno studente dei primi anni di una facoltà scientifica di elencare un po’ di numeri irrazionali, dopo aver detto, in un crescendo di agitazione, radice(2), pigreco e e, si sconforta perché non gliene vengono in mente altri, è un fatto che i numeri irrazionali sono appunto ben di più di quelli che si possono descrivere come frazioni.
Ovviamente la storia mica finisce qui. Mica possiamo accontentarci dei numeri reali, cioè dei razionali e degli irrazionali. Una buona ragione per essere insoddisfatti è che qualunque sia il numero reale r, se ne prendete il suo quadrato, r2, questo è un numero positivo. E per forza mi direte, rappresenta l’area del quadrato di lato r, quindi deve essere un numero positivo! Tutto vero, ma questo ci limita, perché siccome ci piace che le equazioni abbiano soluzione, come la mettiamo con l’equazione x2+1=0? Beh, mica è complicato! Basta immaginare un nuovo insieme di numeri, dove questa equazione ha soluzione! Ecco che nasce l’insieme dei numeri complessi, che ai reali aggiunge quelli immaginari, appunto (e li fa operare assieme).
Ma siccome la matematica va presa a dosi piccolissime, per il momento arriviamo a una conclusione, sempre provvisoria, ovviamente…è imperativo diffidare di chi vi dice, in qualunque campo, che si è arrivati alla conclusioni definitive…
La conclusione cui vorrei arrivare è che certe questioni vanno inquadrate nel contesto, e nell’insieme, corretti. Prendiamo la fatidica domanda: il numero tal dei tali (che in matematica non si chiama così, ma piuttosto x, o n, o…) numero è pari o dispari? Quando in matematica si è indecisi, conviene rifarsi alle definizioni. Che vuol dire che un numero è pari? Qualcuno, un po’ superficiale, vi direbbe, vuol dire divisibile per 2. Risposta senza senso se non si specifica in che insieme si vuol fare la divisione! Se mi metto nell’insieme dei numeri reali allora qualunque numero è divisibile per due! Se r è questo numero reale, bene diviso per due fa r/2, e questo ha perfettamente senso. Dunque no, non va bene dire divisibile per due, e basta. Il modo corretto di porsi il problema è dire: considero il numero naturale n, e dico che questo è pari se lo posso scrivere come 2xm, con m altro numero naturale. Dunque 6 è pari perché 6=2×3, mentre 5 non lo è perché non posso scrivere 5 come 2xm, con m naturale. Insomma divisibile per due sì, ma detto solo per numeri naturali, e in modo che il risultato sia ancora un numero naturale!
Quae cum ita sint, ne possiamo concludere che chiederci se 2,5, o 3/5, o pigreco, o radice(2) sono numeri pari è una domanda senza senso!