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La Sala del Maggior Consiglio, Palazzo Ducale, Genova

La Sala del Maggior Consiglio, Palazzo Ducale, Genova

Ecco le slides  che ho proiettato durante la lectio magistralis su Nash al Festival della Scienza…che dire? Una presentazione nella mia città, dalla quale me ne sono andato tutto sommato per scelta, e senza rimpianti, ma che rimane nel cuore, tanto nel cuore. Una presentazione in una sala straordinaria, quella del Maggior Consiglio a Palazzo Ducale, con 350 persone ad ascoltare nonostante l’ora piuttosto infelice, e per parlare di un personaggio che mi incuriosisce da tanti anni. E poi le interviste alla radio, e perfino un video per Scienza in rete…insomma una giornata davvero particolare…e di cui essere, sinceramente, orgoglioso. Inutile dire che poi mi ha colpito che alcuni che vengono a sentirmi parlare abbastanza regolarmente mi abbiano poi detto che quando non parlo di matematica sono molto chiaro e lo faccio benissimo…insomma, e lo so che mi ripeto, come si fa a non essere innamorati di un lavoro che dà queste opportunità?

Nash_Genova

 

 

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Siena

Siena

                     Qualche settimana fa l’Unione Matematica Italiana ha invitato tre colleghi e me a parlare alla Biblioteca degli Intronati di Siena, città scelta per ospitare quest’anno il nostro congresso. In questa presentazione ci era chiesto di spiegare di che cosa ci occupiamo nella nostra ricerca e più in generale nel nostro lavoro di matematici. Può sembrare strano, ma ho dovuto pensarci un po’ per poter rispondere nei rigorosi tempi prescritti, che imponevano di scegliere argomenti precisi e concisi.

I miei colleghi hanno brillantemente riassunto in 10 minuti o poco più di che tipo di problemi si occupano, io invece ho preferito fare una cosa diversa: perché?

Il  fatto è che credo di non riuscire a definirmi “matematico” fino in fondo, e quindi ho scelto di spiegare che cosa sono gli aspetti veramente significativi del mio mestiere; che poi per esprimere queste mie caratteristiche utilizzi la matematica, rende questa più un mezzo che lo scopo della mia professione, almeno per come la vivo io. E’ così che ho voluto mettere in evidenza che ciò che faccio per me ha tre aspetti distinti, che si integrano e acquistano veramente senso perché sono coniugati assieme: non potrei davvero portarne avanti uno solo senza gli altri.

Il primo aspetto è la ricerca. All’Università questo è un dovere. E’ un’attività che si può esibire poco dal punto di vista pratico. Certo, di solito si scrivono lavori, ma questo è solo un vago indicatore. C’è chi pubblica molto ricercando poco, e chi pubblica poco o niente per anni ma poi esce con la dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat (anche se  questo accade piuttosto raramente…). Comunque nel tempo si riesce a valutare se uno è impegnato nella ricerca, ed io credo di averlo fatto, sia pure con tutti i miei limiti, che in questo caso sono palesi. E cerco di continuare ancora adesso…

Il secondo aspetto è l’insegnamento.

Parlare, a dei ragazzi in genere molto interessati, di cose che ti piacciono, trasmettere loro conoscenza, è una enorme soddisfazione. E’ vero, molti pensano che l’insegnamento sia un lavoro piuttosto ripetitivo. In parte può essere vero, ma una delle fortune  che abbiamo noi che lavoriamo all’Università è che in fondo non dobbiamo insegnare moltissimo. E a me questo sta veramente bene…siccome il Politecnico (lo so ci sono più Politecnici, ma per me il Politecnico è uno…) permette di compattare gli insegnamenti in un semestre, finisco le lezioni a fine Gennaio e riprendo i primi di Ottobre. Il fatto di avere un periodo significativo senza impegni di aula in effetti ha come conseguenza che tra 15 giorni ricomincerò i corsi entusiasta di farlo, anche se questo succede da 42 anni abbondanti… e un periodo di sosta mi permette di raccontare cose simili a quelle degli anni precedenti con visioni un po’ diverse, e di introdurre aggiustamenti maturati in testa dopo aver fatto un po’ sedimentare l’esperienza dell’anno precedente.

Riguarda sempre l’ambito didattico (ma qui siamo al confine con la ricerca…) occuparsi delle tesi, ed io ne seguo parecchie, soprattutto di master, oltre che qualcuna di dottorato. Questa parte del lavoro quasi sempre dà enormi soddisfazioni. Un rapporto personale permette davvero di insegnare tante cose, non solo a affrontare uno specifico argomento tecnico. Quanto alle soddisfazioni, beh quelle si leggono negli occhi degli studenti il giorno in cui si laureano; a volte poi le ritrovi nei ringraziamenti…riporto qui quello di Benedetta, che tra tutti rimane quello che più mi ha lasciato davvero senza fiato

Ringrazio prima di tutto il professor Lucchetti, per tutto il tempo che mi ha dedicato, per avermi insegnato a pensare nella maniera giusta, e per tutta la passione che mi ha trasmesso…

Come si fa a chiedere di più? Come si fa a non avere voglia di trasmettere cose belle a persone così?

Infine, l’insegnamento significa anche, in senso lato, occuparsi di didattica dal punto di vista dell’organizzazione. Io l’ho fatto per sei anni come Presidente del Corso di Studi di Ingegneria Matematica, e per tre anni come Coordinatore del Dottorato di ricerca. Due cose diverse, ma ugualmente appassionanti, perché ti permettono di seguire il percorso di tante persone che compiono i loro studi con entusiasmo, e si lanciano poi nel mondo del lavoro con la fiducia (ben riposta!) di avere una preparazione di qualità. Ecco, gestire questi processi, cercando di smussare le difficoltà non direttamente legate allo studio (che invece deve essere tosto!), è un lavoro appassionante, che porta via un sacco di tempo, che va fatto per un periodo limitato, ma che lascia con una grande ricchezza dentro.

Infine, c’è la divulgazione. Da questo punto di vista devo parecchio alla matematica. Il mio vero sogno nel cassetto era scrivere libri, soprattutto romanzi. Non avendo idee sufficienti, probabilmente non avendo nemmeno uno stile particolarmente elegante, ho lasciato perdere i romanzi…ma la matematica si è rivelata una trama su cui lavorare. Quindi ho provato un gran gusto a scrivere qualche libro, a curarne qualche altro, e mi piace anche fare lavoro editoriale, come lavorare per una rivista, e curarne qualche numero particolare…

Questi aspetti sono, come dicevo, per me fortemente interconnessi. Vado spesso, e mi piace parecchio, a lavorare a Parigi, in un laboratorio di ricerca dove le persone, se insegnano, lo fanno molto raramente, in maniera non programmata (può capitare che venga loro chiesto di fare qualche lezione a un master). In genere sono molto contenti di non avere questi impegni. Credo che invece per me sarebbe impossibile. La ricerca per me ha senso soprattutto, anche se non solo, perché insegno. Certo, non è che in aula vado a raccontare quel che ho fatto negli ultimi lavori, questo sarebbe senza senso. Però sento fortemente che essere impegnato nella ricerca, oltre a permettermi l’attività di tesi, mi aiuta anche a non essere troppo ripetitivo nei corsi che faccio. La ripetizione nell’insegnamento uccide ogni stimolo; quando ricerco, vedo cose nuove, vedo anche cose classiche ma con un’ottica diversa, e tutto questo, anche se non immediatamente, ha delle ricadute su come insegno in aula. Quanto alla divulgazione, è per me evidente che un libro parte sempre dalle mie esperienze in aula. Ne ho scritto uno di teoria dei giochi nel 2001, un altro dieci anni dopo sostanzialmente sugli stessi argomenti. Eppure, per me sono diversissimi, perché il secondo è arrivato dopo 10 anni di corsi su quegli argomenti, e ogni classe mi ha portato idee nuove, nuovi modi di presentare le cose: è lo sforzo quotidiano di provare a far capire sempre meglio agli  studenti, che poi ha ricadute sul modo in cui scrivo un libro. C’è chi non ha bisogno di questo. C’è chi è capace di scrivere un libro che parla di matematica conoscendo poco gli argomenti di cui parla. C’è persino chi lo fa molto bene (e non lo dico affatto ironicamente, ho in mente un esempio ben preciso…). Io non posso. Ci sono stati nel passato un paio di periodi in cui, tra libri pubblicati e conferenze tenute a ritmi abbastanza elevati, ho forse un po’ trascurato la parte più carbonara della ricerca, portata avanti con poche persone in giro per il mondo. Ebbene dovevo smettere proprio di andare in giro a parlare, non scrivevo più articoli di divulgazione, perché mi sentivo più un attore (guitto) o un opinionista, che non uno scholar (lo so che si traduce in esperto, ma faccio fatica a sentirmi esperto in un argomento qualsiasi, scholar mi mette meno ansia) che parla delle cose che sa.

Per chiudere il cerchio, mi sono posto la domanda su che cosa poteva essere il vero filo conduttore delle mie tre attività, posto che uno ce ne fosse. L’ho trovato, e la cosa mi è proprio piaciuta, anche perché in fondo si lega perfettamente con la gran parte della ricerca che faccio negli ultimi tempi. Il filo conduttore è rappresentato dalle relazioni che queste attività mi permettono di instaurare con gli altri. La vita è per definizione interazione, questi aspetti del mio lavoro mi permettono di farlo in maniera incredibilmente interessante con persone di ogni tipo.

La ricerca è scoperta, e scoprire per me è elettrizzante e stimolante quando lo si fa con qualcuno.

Preferisco scrivere i libri da solo, perché sono opera di sintesi, ma quando cerchi di risolvere un problema stai vagando al buio:  trovo molto più bello cercare le vie di uscita assieme ad altri… è un’esperienza molto intensa, non a caso molti miei coautori sono diventati amici così. Che la didattica sia interazione concreta è evidente, che lo sia la divulgazione non è così ovvio, ma è certo che scrivo e presento cose al pubblico perché ho bisogno di trasmettere le cose che mi appassionano.

Essendo la teoria dei giochi, che insegno, che propongo per tesi, che racconto nei libri, la matematica della interazione, direi che ho scoperto, proprio in questa occasione, che c’è una grande (involontaria!) coerenza nel cammino che sto percorrendo in questo mestiere che proprio non riesco ad amare un po’ meno, nonostante lo pratichi da tempo immemorabile…

 

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        Con_Nash        Il  19 Marzo 2003 l’Università Federico II di Napoli ha conferito la Laurea Honoris Causa in Economia a J.F. Nash Jr. Curiosamente, uno dei vincitori del premio Nobel 1994 in Economia non aveva ancora una laurea in questa disciplina! Nella mattina della cerimonia, un Nash abbastanza frastornato dal jet lag e dall’allegra confusione che lo circondava, ha acconsentito a rispondere alle domande che numerosi giornalisti gli hanno proposto. Ero presente, e ho provato a farne un resoconto.

D. Lei è qui per la ricevere una Laurea Honoris Causa: è contento per questo?

R. Certamente, i riconoscimenti sono arrivati abbastanza tardi nella mia carriera

D. Quale futuro vede per la teoria dei giochi?

R. Qualcuno potrebbe pensare che serva a vedere le cose più chiaramente, a prevedere il corso egli eventi. Ad esempio in caso di guerra. Se servisse davvero a ciò, allora non ci sarebbero più conflitti, perché chi fosse destinato a perdere non comincerebbe nemmeno. Io non ci credo. Però può aiutare a capire meglio certe situazioni.

D. Che cosa pensa della guerra?

R. Penso che ce ne sia una imminente, anche se per fortuna non è stata ancora dichiarata.

D. La teoria dei giochi può essere utile in caso di guerra?

R. È già stata usata, per scopi difensivi. Ma la teoria può solo dare una chiave di lettura, e lo stesso si può dire di altre teorie, come ad esempio quella di Machiavelli.

D. Quale applicazione della teoria le piace di più?

R. Mi piace il fatto che può migliorare la cooperazione fra gli uomini e l’efficienza delle istituzioni.

D. Lei oggi ha un approccio diverso alla matematica rispetto a quando era giovane?

R. La differenza sta tutta nella percezione del futuro. Non è molto probabile che possa vivere fino a 120 anni, non è pensabile di rimanere intellettualmente attivo fino a 100 anni. Per cui non è ragionevole pensare di affrontare un problema veramente difficile della matematica: studiarlo potrebbe richiedere 5-10 anni, ed io non ho questo tempo. Preferisco dedicarmi a problemi cui ho già pensato nel passato.

D. Ha deciso di diventare matematico per ispirazione personale o per avere un ruolo leader nella società?

R. Mi sono interessato già da ragazzo alla matematica, ed ho scoperto di avere una certa abilità. Ma ero interessato anche ad altre scienze, come la chimica e la fisica. Il fatto è che una carriera da matematico può essere “pratica” come quella di altre discipline, per esempio l’ingegneria o la letteratura. Dal punto di vista accademico, la matematica non presenta grandi differenze da altre discipline, ritenute più concrete.

D. Che significato ha avuto per lei Princeton?

R. Princeton non è solo l’Università, c’è anche l’importante Institute of Advanced Studies. Quando sono arrivato io c’erano scienziati di grande livello, tra cui Einstein e Von Neumann. Molti di loro erano immigrati.

D. La gente dice che lei è un genio. E lei che ne pensa?

R. È difficile parlare di questo. Se chiedi a qualcuno che potrebbe essere un genio se lo è davvero, la sua risposta sarebbe molto difficile. Se chiedi a Mozart perché lui è un genio e Haydin no, forse ti direbbe che non è affatto sicuro che Heydin non sia un genio.

D. Che cosa ha significato per lei il premio Nobel?

R. Mi ha aperto molte porte. A quel tempo, per ragioni di cui non voglio parlare, non avevo una posizione accademica molto forte. Il Nobel mi ha aperto tante strade, la mia vita è cambiata rispetto a prima, ora ho anche finanziamenti per la mia ricerca.

D. Che cosa pensa dell’approccio di von Neumann e Morgestern alla teoria dei giochi?

R. Hanno dato un grandissimo contributo alla teoria e alle sue applicazioni all’Economia. Il loro concetto di soluzione, che presumibilmente nasce da un’idea di von Neumann, ha delle debolezze, dal punto di vista tecnico. In questo senso l’equilibrio di Nash può essere un’alternativa. Non solo, la loro idea ha portato ad altri importanti concetti di equilibrio, come l’insieme di contrattazione ed il nucleolo. In ogni caso, il loro contributo alle basi della teoria dei giochi e delle sue applicazioni all’economia è stato fondamentale.

D. Che cosa pensa di De Giorgi? L’ha conosciuto?

R. Sì, l’ho incontrato, ma non spesso. Una volta a New York, molto tempo fa. Più recentemente, l’ho incontrato quando ho visitato Bergamo. Ma a quel tempo era già molto malato. Sicuramente è stato un ricercatore di fama internazionale, che ha avuto molti riconoscimenti, molti di più di tanti colleghi, me compreso.

D. Un’ultima domanda. Lei nella sua vita ha incontrato molti John Nash?

R. Ho conosciuto un J.F. Nash, ma ora non c’è più. Era mio padre. Conosco un altro J. Nash, ma non J.F. Nash, lui è J.C. Nash. È mio figlio. Non mi viene in mente nessun altro. Certo, J. Nash non è un nome comune, come potrebbe essere J. Smith.

Agosto 2007

apr
2015
30

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Se solo avessi le parole, allora quante cose potrei raccontare. Quello che vedono i miei occhi, e rimane per sempre sepolto nella mia mente. Il sorriso di una persona che non incontrerò più. Se solo avessi le parole, ti chiederei perché quel giorno non ti sei fermato, perché quel giorno non ti sono bastati i volti delle tue bambine, non ti ha fatto desistere il pensiero di una donna che avresti lasciato con tante domande per sempre senza risposta. Se solo avessi le parole,  racconterei la dolcezza della tua gonna, che non ti avevo mai visto portare, il tenero imbarazzo della pedalata sulla bicicletta, il tuo viso sorridente al suono della musica. Se avessi le parole, potrei raccontare perché mi piace guardarti così mentre giochi, perché mi affascina il tuo lungo corpo magro, perché i tuoi bambini hanno preso un posto nel mio cuore. Se avessi le parole, potrei spiegarti come mi piace rilassarmi al massaggio forte delle tue mani, vincendo le difese e le paure di essere toccato. Se avessi le parole, vorrei dirti come invidio, con grande dolcezza, come tu e lui da vent’anni state insieme, e non avete ancora perso la fantasia di scrivervi 10 sms al giorno. Se avessi le parole, parlerei con te del sogno del faro, per ore ed ore. Se avessi le parole, potrei raccontare tutta la mia tristezza, tutta la paura del tempo che passa, tutta l’amarezza di non sapere né spiegare né capire, almeno con te. Se avessi le parole, potrei dirti quanto mi piacerebbe che fossimo una volta capaci di fare quel che ci proponiamo, invece di vivere i nostri discorsi appassionati come uno sfogo per ricominciare dai nostri gesti di sempre. Se avessi le parole, forse potrei riuscire a spiegare, almeno a me stesso, perché mi è così difficile accettare i miei limiti, il tempo che passa, le delusioni che pur spesso si accompagnano alle gioie. Se avessi le parole, vorrei spiegarti perché averti conosciuto quest’anno qui mi ha dato così tanto, cancellando le tristezze che ormai mi accompagnano da troppo tempo. Se avessi le parole, ti avrei chiesto di accompagnarti oggi a casa, e sarei stato capace di andarti a prendere i fiori che vorrei portarti.

Se solo avessi le parole.

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Era l’anno 1987, un bel po’ di tempo fa. Sono stato per un mese ospite dell’Università di Limoges. Per dormire, una stanza con cucina alla Casa dello studente, in un’ala riservata ai professori (a quel tempo avevo meno pretese). L’ultima sera scendo per telefonare a casa: i cellulari non esistevano proprio. Sotto la Casa c’erano cabine multiple, nel senso che erano fatte circolari, e divise in tre settori (di 2/3π…) separati da pareti in vetro. In altre parole, mentre parli vedi (ma non senti, per fortuna), le persone che come te parlano al telefono. Sono lì che mi scambio notizie con casa, quando qualcosa mi distrae: in uno dei due settori contigui al mio c’è una ragazza che piange disperatamente. Confesso che non avevo visto una persona così visibilmente disperata. Termino la mia telefonata, ma qualcosa mi spinge a non andare via… insomma aspetto che anche lei finisca. Quando esce, faccio una cosa che non avevo mai fatto prima e non avrei ripetuto nel futuro: la “abbordo” con un “Vista la situazione, forse potrebbe andar bene andare a bere una birra insieme”. Lei mi guarda un po’ stupita (lei è una studentessa, io un signore quasi quarantenne…) poi mi risponde “perché no, visto che dopo mi suicido”. Prendo l’auto, e ci rechiamo in una brasserie del centro (centro di Limoges, s’intende, insomma un centrino) Chiacchieriamo, o meglio, per una rara volta, ascolto, senza quasi parlare, un torrente in piena. Intanto beviamo la birra. Ovviamente, come ogni ragazza di quell’età, i temi sono classici: problemi con i genitori, liti con l’amica del cuore, problemi con i ragazzi… a un certo punto viene fuori anche una cosa delicata, i problemi con l’amica sono dovuti a una singola divagazione della narrante con il moroso dell’altra: singola sì, ma in questo campo uno è parecchio più di zero… Insomma i discorsi si accavallano. Poi basta bar, decidiamo di andare a fare una passeggiata nella natura. Non è difficile a Limoges. Ci troviamo dunque in periferia, in un parco molto bello (e piuttosto buio). Cominciamo a camminare parlando, e tenendoci per mano. Ovviamente comincio a pensare… certo, lo so che sono una brava persona e si vede, ma questa qui forse è un po’ imprudente, si trova pur sempre di notte con un uomo sconosciuto in un bosco… e io, mi interrogo, sto mica facendo dei pensieri? Forse sì, è difficile non farne, credo. Però lei parla, e sento che la sua voce si rilassa sempre più, e io… io non voglio rischiare di turbare questa atmosfera con un approccio più concreto, poi proprio non sono abituato, io non mi propongo mai…aspetto che le situazioni maturino se ci sono in presupposti, così non si deve fare avances…sono fatto così. E poi non sono single…va bene la situazione, ma non sarebbe proprio una cosa facilmente gestibile dalla mia coscienza…
Sono anche un po’ preoccupato, l’orologio segna ben oltre l’una di notte, devo partire entro le sette, mi aspettano undici ore di viaggio in auto… Quindi a un certo punto le dico “Ora penso che forse non ti suicidi più”. E lei mi risponde “Credo proprio di no”. Quindi decidiamo che l’accompagno a casa (era sotto la casa dello studente, ma non abitava lì). Dunque saliamo in auto, e in pochi minuti arriviamo sotto casa sua. Usciamo dalla macchina, ci salutiamo con un abbraccio stretto stretto e due baci sulle guance. Guido verso la mia stanza, pieno di sensazioni: tristezza, perché non la rivedrò mai più, dolcezza, perché è stato un incontro così bello e così improbabile…
La mattina mi preparo presto, carico la macchina e parto. Al momento di prendere la direzione di casa, un impulso mi costringe a deviare: voglio passare sotto casa sua. Non so perché, ma voglio rivedere il luogo dove abita. E’ mattino presto, non ho difficoltà, dopo un paio di errori, a ritrovare la strada. Alzo gli occhi, lei è al davanzale che chiacchiera con la padrona di casa (di cui mi aveva parlato). Riconosce la macchina, le si illumina il viso, mi saluta festosamente con la mano. Finalmente parto diretto verso casa.

Ovviamente, non saprò mai più nulla di lei. Ma ancora dopo 28 anni, ogni tanto mi capita di pensare a quella sera. E mi piace credere che lo faccia anche lei.

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alieno

Una rivista (Focus) tempo fa aveva fatto un’inchiesta tra scienziati (?) chiedendo loro che cosa avrebbero consigliato di fare, in venti righe, nel caso si fossero presentati gli alieni sulla terra. Rimettendo a posto i miei files (ogni tanto mi capita di avere queste manie), ho ritrovato il breve pezzo, e lo riporto qui

Gli alieni si presentano a casa nostra. Che fare? E soprattutto che cosa NON fare? Partiamo da una premessa. Si è verificato un avvenimento che aveva probabilità molto piccola! Questo succede più sovente di quel che immaginiamo, ma in genere le situazioni che tali avvenimenti improbabili ci propongono sono inusuali, e quindi richiedono di riflettere. Quindi l’unica cosa veramente indispensabile da fare è: non dare nulla per scontato. È chiaro che saremo di fronte a esseri superintelligenti, perché non c’è dubbio che arrivano da lontano, e dunque sono stati in grado di fare un viaggio lunghissimo. Siccome ci crediamo anche noi intelligenti, potremmo aspettarci che capiscano i nostri discorsi. Nulla di più sbagliato! Un grande pensatore ci ha insegnato che neppure una cosa semplice come l’aritmetica può certificare la sua completezza e la sua coerenza, figurarsi il nostro pensiero! Non solo, ma l’idea di infinito, che oggi ci è necessaria per una comprensione più profonda delle cose, ha distrutto la comoda credenza che la logica, la semplice logica, sia un linguaggio universale e necessariamente unico. Oggi, sappiamo che si possono utilizzare molteplici logiche, che a volte dicono cose assai diverse…e se le nostre menti intelligenti ma limitate sono capaci di immaginare molte logiche possibili, quanti saranno i modi per esprimersi intelligentemente? Davvero così tanti da non poterli neppure immaginare. Per questo, la nostra intelligenza e quella dell’alieno saranno così diverse da non riuscire a capirsi, almeno all’inizio. Solo se non daremo nulla per scontato avremo una possibilità di dialogo.

Haifa, Italia

mar
2015
19

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Haifa (חיפה ) è una città di circa 270.000 abitanti, situata nel nord di Israele. Si affaccia sul mare, ed è un importante porto industriale. Ci si arriva per una bella strada, o in ferrovia, costeggiando in entrambi i casi il Mediterraneo per lunghi tratti. Ricorda per certi versi Genova, considerando il mare di fronte e la natura collinosa del terreno su cui sorge. E infatti andando in auto per le strade della città si continua a salire e scendere, senza quasi soluzione di continuità. E’ sede del Technion, la prima Università tecnologica del Paese. Ma ospita anche l’University of Haifa, che sta in cima a una collina. Dal Technion, si può raggiungere l’Università con una scarpinata, praticamente tutta in salita, in certi punti anche abbastanza ripida; salita che si percorre in circa 45-50 minuti se si cammina a buon ritmo: insomma, non proprio una passeggiatina. Ma ne vale la pena. Anche l’Università, come molte cose di questo paese, presenta aspetti assai interessanti. Il primo è sicuramente la torre, che si presenta così.

La torre Eshkol, di trenta piani

La torre Eshkol, di trenta piani

Considerando che si trova su una collina, è abbastanza chiaro che dall’ultimo piano si dovrebbe godere di una vista stupenda. In effetti è così, visto che ci sono già stato, ed una delle ragioni per cui mi sono fatto una scarpinata fin qui è che volevo proprio prendere delle foto ricordo. Figurarsi la mia delusione quando un inflessibile inserviente mi ha spiegato che senza permesso non potevo proprio entrare. Ma come? Ci ero già stato molte volte…Inutile tentare di spiegare la situazione, oltre a tutto in questi posti si trovano spesso persone anziane, immigrati recenti, che non parlano Inglese. E io col russo non ci so proprio fare…E non ditemi che è perché sono state rafforzate le misure di sicurezza, in realtà mai come quest’anno le ho trovate così blande, a partire dall’aeroporto (nessun controllo diverso da un viaggio a Parigi) per finire all’entrata dei supermercati o qui al Technion.

Dopo la delusione, decido però che comunque la scarpinata val bene qualche foto, visto che il panorama non è male nemmeno dal piano terra, la collina domina davvero Haifa. Ecco allora un paio di foto.

 

Vista dalla base della torre, direzione Nord-Ovest

Vista dalla base della torre, direzione Nord-Ovest

 

Da qui si vede bene la baia, si intravvede il porto, e si nota il parco del monte Karmel, dove ha sede l’Università.

Il verde della collina, nello sfondo l'azzurro del mare, reminiscenze di Liguria...

                         Il verde della collina, nello sfondo l’azzurro del mare, reminiscenze di Liguria…

 

Spostando lo sguardo verso Ovest, la vista diventa più naturalistica, si scorge meno la città, il mare è il soggetto principale. E’ proprio nel tratto che costeggia il mare che ci sono la ferrovia e la strada per arrivare qui.

A questo punto non ci sono più foto panoramiche da prendere…la scarpinata tuttavia merita che rimanga ancora qui a curiosare un po’ in giro. Tanto più che di solito venivo di giorno festivo o semifestivo, o forse la torre assorbiva tutte le mie attenzioni, quindi vale la pena fare un giro anche intorno, per vedere posti non ancora visitati. La cosa veramente interessante è che l’Università si sviluppa anche nel sottosuolo, o meglio quello che sembra essere nel sottosuolo, solo perché sta sotto il grande basamento su cui si sviluppa la torre. Prendo quindi la strada che taglia in due l’area, e scopro tutta una varietà di negozi che stanno protetti sotto i portici, e  si affacciano sui marciapiedi, dove si aggira la solita bellissima folla fatta di ragazzi e ragazze tra i venti e i venticinque anni; insomma si respira immediatamente la tipica atmosfera da campus, resa qui ancora più interessante dall’incredibile varietà di tipi che si vedono: le origini dei ragazzi sono chiaramente le più disparate. A un certo punto vedo un cartello che indica un museo, free entrance. Bene, almeno lì mi lasceranno entrare…si tratta del Museo Hecht, di archeologia e arte. Trovare l’entrata non è facile, molti cartelli sono solo in Ebraico, ma alla fine provo a avvicinarmi a un portone, dove sta di guardia una ragazza. Sì, questa è l’entrata del museo, mi conferma, chiedendo gentilmente di aprire lo zainetto, per dare una sbirciatina dentro. Finalmente entro in questa parte che davvero assomiglia a un enorme piano interrato (tra l’altro c’è una biblioteca che contiene ben più di 100.000 volumi), e comincio a girare. C’è di tutto, sembra un bazar, mi piacerebbe lavorare qui per sei mesi, scommetterei con me stesso che alla fine del soggiorno sarei in grado di non perdermi… un autentico labirinto per uno col mio senso dell’orientamento. A un certo punto, nel mio curioso girovagare, mi ritrovo a di fronte a un’enorme uscita, che dà su una piazza, e alla quale non c’è (ovviamente) nessun controllo. Questo comincia a farmi nascere qualche sospetto, oltre a farmi pensare che in certe cose stare qui non è diverso dallo stare in Italia: tutto caotico, disordinato, il più delle volte molto divertente, spesso incomprensibile…che senso fare controlli a un’entrata, e non farli a un’altra? Ovviamente un pensiero tira l’altro e… proprio così! Trovo l’ascensore della torre… mi ci fiondo sopra, e schiaccio direttamente il pulsante del piano 29.  Finalmente arrivo: sono un po’ agitato, sembra che ci sia qualche meeting in qualche stanza, sento parlare ma non vedo nessuno, comunque, sia pure con una certa fretta riesco a prendere le foto che ho messo qui sotto

Vista dal trentesimo piano della torre Eshkol

Vista dal trentesimo piano della torre Eshkol

Un'altra

Un’altra

Una vista del mare, sempre dalla torre

Una vista del mare, sempre dalla torre

L'ultima, prima di ridiscendere

L’ultima, prima di ridiscendere

Finalmente ridiscendo e prendo la via del ritorno. Ora è più semplice la camminata, tutta in discesa. Persino la schiena non mi ricorda più che esiste e fornita di parecchi muscoli e muscoletti. Scendendo, c’è il tempo per prendere un’ultima foto.

Sulla via del ritorno

Sulla via del ritorno

 

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mate

Qualche giorno fa si è “festeggiato” il pigreco-day. Si fa tutti gli anni, mi pare, ovviamente il 14 Marzo, ma quest’anno l’enfasi è stata molto più accentuata dal fatto che siamo nell’anno 2015, e se dimentichi il duemila rimane il 15, che è molto comodo da aggiungere al suddetto 3.14. Poi ci sono i sofisticati che sono capaci di aggiungere ancora un certo numero di cifre, sfruttando ore minuti e secondi… Non so se questo “evento” ha avuto la notevole risonanza mediatica che ho percepito io: la mia percezione si basa soprattutto  su quel che vedo su Facebook, ed è ovvio che le mie amicizie lì non sono un campione rappresentativo della popolazione. D’altra parte è pur vero che ci sono state parecchie iniziative, ce ne sono ogni anno, spesso coinvolgono i ragazzi, quindi le famiglie, e dunque questo pigreco-day un qualche rumore mediatico lo fa.

E dunque ho ascoltato questo rumore, e devo ammettere che l’ho fatto con un crescente, anche se blando, fastidio. O forse, per essere più precisi, con un divertito disagio (insomma, qui ci vuole un ossimoro). Ovviamente mi sono chiesto perché,  e ho cominciato a elaborare un po’ la cosa, lasciandola anche un po’ decantare, fino a che un post della Donatella mi ha aperto gli occhi. Letto quello, ho capito il perché del mio poco entusiasmo verso i pigreco-day… Dunque quel post esprimeva più o meno la noia di questa ricorrenza, concludendo, se non ricordo male, con odio i numeri, odio la matematica!

E’ qui che ho capito che cosa stavo rimuginando.

Io ho bisogno di cercare di far capire agli altri che faccio e che cosa mi piace (beh, non tutti gli altri, ma un certo numero sì…).  Per esempio, mi sento a disagio quando vedo le facce perplesse di molte persone che, sentendomi dire che sono contento perché ho finito corsi e esami, mi chiedono quando è che riprendo, e vedo che fanno fatica ad accettare la mia risposta: agli inizi di Ottobre; è ovvio che solo per educazione non mi chiedono che cosa faccio da Marzo a Settembre (compresi): ma questo è un altro discorso.

Dunque, è una mia esigenza forte quella di spiegare, alle persone che fanno in qualche modo parte della mia vita, perché trovo interessante la matematica, e perché ci ho dedicato gran parte della mia vita.  E devo ammettere che questi pigreco-day mi danneggiano non poco…

Che nella matematica ci siano i numeri è evidente, anche se pigreco mi risulta sia prima di tutto una lettera greca. Che molte persone, anche non matematici  di professione, si divertano con i numeri, dalle maniere più semplici, tipo Sudoku, ad altre più complesse, anche questo è ovvio. Che ci giochi anche io ogni tanto è sicuramente vero; che Matteo a cinque anni conosca benissimo i numeri e gli interessino poco le lettere non mi stupisce granché.

Però, accidenti, la matematica è molto più di questo. La matematica è un mondo in cui ognuno trova quel che cerca. Oggi sentite insistere molto sul fatto che la matematica è utile, ci serve nella vita di tutti i giorni, e che senza non avremmo nulla di quello che caratterizza la più importante rivoluzione che la specie uomo ha vissuto, quella dell’informazione. Tutto vero.

Eppure anche questo per me è riduttivo. La matematica non è solo questo. E’ molto di più, almeno per me.

E’ un modo di pensare, di esplorare la nostra mente. Sono assolutamente convinto che penserei in modo diverso, che avrei anche idee diverse in certe cose, se non mi fossi dedicato alla matematica. Che mi permette di vedere le cose con un’angolazione molto particolare…

A me sarebbe piaciuto dedicarmi, almeno teoricamente, a discipline più umanistiche. Mi piacciono letteratura e filosofia. Mi piace soprattutto la psicologia, cercare di capire la mente. La matematica mi aiuta in questo. Non è un caso che mi occupi di teoria dei giochi, e che la insegni con tanto entusiasmo (4 mesi all’anno, è ovvio). A me la descrizione del mondo non interessa quanto l’esplorazione della mente: la matematica in questo è preziosa.

Certo, la matematica si esprime con un linguaggio difficile. Ed è questo che blocca la maggior parte delle persone. Ma ne bloccherebbe meno, credo, se noi che ce ne occupiamo parecchio dicessimo loro che non si esaurisce tutto nel linguaggio: le strutture che Donatella cerca nella lingua inglese sono sostanzialmente le stesse che i matematici studiano e ricercano, il piacere che chiunque prova a leggere L’infinito di Leopardi si arricchisce se all’idea di infinito ci si aggiunge l’approccio matematico.

Non tutti possono amare la matematica. E, diciamo la verità, ce ne  sono intere parti che anche  io detesto cordialmente. Ma forse spiegare un po’ più chiaramente quel che ci vediamo noi, che non si ferma mai al trastullarsi con numeri in fila, può essere utile per farla guardare con occhi diversi, per esempio da parte dei ragazzi delle scuole.  E ai loro genitori che di fronte a certi compiti rivivono incubi passati…

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Questo è un articolo che mi è stato commissionato da un giornale. Mi hanno anche gentilmente detto quando l’avrebbero pubblicato (dopo averlo ricevuto). Quel giorno però l’articolo non c’era, e da allora non rispondono alle mie mail… Bene, tanto per cominciare ho deciso di metterlo sul mio sito, silente da troppo tempo. Ma c’è un perché! Ho dovuto fare esami per 5 corsi, organizzando 10 prove scritte, e relative correzioni…per fortuna le mie Giulie sono state bravissime… e ora spero di riprendere anche il mio sito, considerando che il secondo semestre è libero da impegni di insegnamento.

Eccolo

 

 

Il nome-Teoria dei Giochi- potrebbe far pensare a una parte della matematica in cui i ricercatori sono persone leggere e forse anche sfaticate, che si occupano di problemi poco rilevanti. Nulla di più sbagliato! Bastano due semplicissime osservazioni per convincersene. La prima. Chi passa più tempo a giocare? I bambini che, tra l’altro, lo fanno molto seriamente: sono attenti, concentrati, e difficilmente qualcosa li può distrarre, nemmeno il bisogno di mangiare o andare in bagno (con qualche arrabbiatura conseguente dei genitori).  La seconda. Tutti o quasi gli avvenimenti più importanti proposti dalla televisione, a livello mondiale, sono riproduzioni di giochi. Tra gli avvenimenti più seguiti al mondo in diretta ci sono manifestazioni sportive, giochi per eccellenza. Il motivo per cui i bambini giocano così tanto e gli adulti si appassionano allo sport è lo stesso: il gioco è una rappresentazione simbolica molto efficace di quella che è la vita di ogni giorno di tutti gli esseri viventi. I bambini giocano con lo scopo di allenarsi per essere meglio preparati per il gioco della vita, il più importante di tutti. Una partita di calcio ci attira perché rappresenta un simbolo tangibile delle lotte che affrontiamo ogni giorno quando ci alziamo dal letto. E dunque la Teoria dei Giochi è una parte della matematica molto seria, che studia problemi reali, e che può aiutare ad affrontarli meglio. Voglio in queste poche righe presentare alcune delle applicazioni più recenti della teoria, senza soffermarmi su quelle più naturali e classiche, che sono quelle economiche. Del resto per capire quanto essa sia importante per l’economia, basta ricordare il notevole numero di Premi Nobel assegnati a teorici dei giochi, compreso quello di quest’anno. Il primo esempio che vorrei illustrare riguarda un’applicazione alla medicina. In particolare, a un problema connesso col trapianto dei reni. Sempre più persone necessitano di un rene nuovo, che può cambiare radicalmente la qualità della vita di un malato (un paio di giocatori americani hanno vinto il titolo NBA, il famoso anello, dopo aver subito un trapianto di rene). Per questo motivo i reni prelevati da cadaveri non bastano, e sono destinati, anche se le donazioni aumentassero, a coprire una percentuale sempre minore di necessità. D’altra parte si vive bene anche con un rene solo, e quindi è possibile ricevere il rene da un donatore vivente. Ecco che così si formano potenziali coppie paziente-donatore. Il problema sorge però quando essi sono incompatibili: questo succede spesso, e dipende da motivi biologici. Diventa quindi naturale pensare a scambi tra donatori: le coppie paziente-donatore (A,B) e (C,D) potrebbero essere incompatibili, ma è possibile che (A,D) e (B,C) siano coppie compatibili. Perché dunque non organizzare uno scambio? E perché limitarsi a uno scambio tra coppie? Non potrebbe essere possibile e più efficiente organizzare scambi multipli? Credo non ci sia bisogno di dilungarsi a spiegare la quantità di problemi che sorgono per mettere in pratica queste procedure, che sono molto reali e concrete, visto che questi scambi avvengono da parecchi anni e che si è arrivati a farne che coinvolgevano sette coppie contemporaneamente… Su questi problemi il teorico dei giochi può dare contributi molto interessanti. Non solo per studiare il modo più efficace di organizzare gli scambi (questo vuol dire, per esempio, fare in modo che il numero più grande possibile di pazienti riceva un rene), ma anche per analizzare aspetti collaterali; ad esempio, in molte situazioni gli scambi massimali possibili possono essere più di uno. In questo caso allora è interessante individuare dei meccanismi di priorità che selezionino lo scambio più socialmente equo (questi scambi, di solito, privilegiano i pazienti con gruppo sanguigno 0, che sono coloro che hanno in assoluto meno donatori compatibili). Un altro aspetto rilevante riguarda quanto i sistemi di scambio possano indurre a mentire (ad esempio i pazienti e i loro medici) per ottenere vantaggi, e quali invece incentivano a dire la verità. Il premio Nobel dell’anno scorso è andato a due americani che hanno portato contributi fondamentali allo studio di queste meccanismi. Un’altra applicazione sorprendente riguarda un problema di genetica molecolare, con applicazioni mediche. Occorre una piccola premessa. Ci sono situazioni in cui è interessante capire quale è la forza relativa di un giocatore in un dato gioco. Un tipico esempio riguarda i partiti di un parlamento. E’ chiaro che un partito che ha più voti in genere si pensa che abbia più potere, ma è altrettanto chiaro che guardare alle percentuali può portare a valutazioni insensate. Può succedere che un partito con 4% sia cruciale in un parlamento (ad esempio se ci sono altri due partiti col 48%, che sono ideologicamente incompatibili), oppure del tutto irrilevante (se c’è già una maggioranza che non li comprende). La teoria dei giochi ha introdotto degli indici di potere per valutare la forza relativa dei giocatori in una determinata situazione. Con questi sono state fatte analisi per determinare quanti seggi assegnare alle singole nazioni nel parlamento europeo, o anche per stabilire se un azionista di una certa società non abbia in mano troppo potere, per cui in base a una legge potrebbe essere obbligato a cedere parte delle sue azioni. Uno dei pregi della matematica è di prendere oggetti che sono stati sviluppati per certi scopi, e rendersi conto che sono molto utili anche in contesti del tutto differenti. Ecco allora che si è pensato di applicare indici di potere per capire l’importanza di certi geni nell’insorgenza di malattie di tipo genetico. L’idea è di creare un modello di gioco in cui un gene più importante degli altri per lo sviluppo di una malattia sia un giocatore con grande potere. Il modello è stato fatto, e poi è stato applicato sia a casi di studio, sia a dati reali. In particolare abbiamo analizzato un certo tipo di tumore al colon-retto, malattia di cui si sa l’origine genetica, prendendo i dati dalle analisi di un certo numero di malati, e di persone sane, che servivano da riferimento. Questi dati sono disponibili in Internet, e sono anche in quantità enormi, quindi vanno trattati al computer. Abbiamo finalmente prodotto la “nostra” classifica dei geni. A questo punto siamo andati a controllare nella letteratura medica se erano segnalati dei geni come potenzialmente responsabili della malattia. Ne abbiamo trovato sette; di questi sei erano ai primissimi posti della nostra classifica, che ne comprendeva alcune migliaia! Quindi un risultato simile non può essere considerato casuale. La nostra idea è che i medici, con altre tecniche, potrebbero controllare se anche altri geni, ben classificati nella nostra lista, siano rilevanti nell’insorgenza della malattia: trovare al buio è molto più difficile che trovare sapendo quel che si cerca.

La vita e la scienza moderna sono molto complicate da analizzare. Occorrono molti esperti, in discipline differenti, per portare contributi significativi ad un problema complesso. Nel caso dei trapianti, c’è ovviamente bisogno dei chirurghi, di équipes medico-infermieristiche molto sofisticate, di manager, di matematici, di informatici, di bioetici e di filosofi, perché le tematiche coinvolte sono molteplici. Il teorico dei giochi è uno dei matematici che lavora maggiormente in équipe, e gli piace molto farlo.

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I coniugi Britt Moser, Nobel per la Medicina 2014

Un recente articolo di Gianantonio Stella sul Corriere trattava di un problema che sta toccando le Università, e sono convinto che chiunque, o quasi, lo abbia letto, non possa che aver concordato con tutto quello che lui ha scritto. Del resto, credo che l’articolo di legge cui fa riferimento sia davvero uno dei pochi che ha ricevuto consensi a destra e a sinistra. Si tratta della regolamentazione delle “parentele” all’interno dell’Università. In particolare, la (facile) ironia dell’autore dell’articolo si concentrava su fatto che alcune Università hanno interpretato la legge in senso allargato, escludendo cioè la moglie dal rapporto parentale. In altre parole, la regola che si applica, ad esempio, tra padre e figlio, non si applica invece tra moglie e marito. Tutto l’articolo voleva convogliare sdegno su tale interpretazione, facendo l’ormai abusato esempio di un dipartimento di un Università, mi pare a Bari, dove sembra che in certi piani tutti gli studi abbiano la targhetta con lo stesso cognome (ma forse non sono tutti coniugi). Ora, come dico nel titolo, è evidente che il problema si pone.  D’altra parte, questi fenomeni non succedono solo nelle Università, in un Paese in cui il familismo impera. Ad esempio, perfino forze politiche che si presentavano o si presentano come alternative non esitano poi a sistemare figli ovunque, che siano trote o consulenti informatici del movimento. Quindi il problema c’è. Ma per risolvere i problemi occorre un’analisi razionale e non emotiva. Allora, tanto per cominciare, a mettere i puntini sulle i va chiarito che è vero che il rapporto moglie-marito è sostanzialmente diverso da quello padre-figlio. In molti ambienti di lavoro ci si incontra, ci si conosce, e poi ci si sposa. Che questo debba diventare, persino retroattivamente, un macigno sulla carriera delle persone, mi sembra eccessivo. Ma il punto non è questo. Il punto è: una legge come questa risolve il problema del familismo all’Università? Certamente dà un segnale, questo lo riconosco. Ma penso che non risolva nulla, anzi che faccia danni. Il motivo è semplice. Le persone con mentalità mafiosa sul lavoro non si lasciano certo spaventare da questi provvedimenti. Per esempio, supponiamo che un Rettore di una grande Università di una grande città, che magari ha tre Università, sia dedito a sistemare moglie, figli e parentela varia nella sua Università. Credete che questo fantomatico Rettore si spaventerebbe per un provvedimento del genere? Certo che no. Le persone mafiose hanno tutta una serie di relazioni con persone della stessa risma, che magari stanno in Università contigue. Ecco quindi che uno scambio di favori risolve il problema. Al contrario, nei dipartimenti a pochissima o nulla densità mafiosa un provvedimento del genere i danni li fa, eccome. Da noi c’è chi vuol cambiare dipartimento, o chi addirittura ha deciso di divorziare (già perché poi si può diventare amanti e su questo la legge non ci può fare nulla). In altri Stati non sono certo incoraggiate queste commistioni, ma nemmeno proibite. Dove c’è convenienza, nessuno si scandalizza se in un dipartimento si trova una coppia di coniugi. Dove ero a Davis hanno assunto moglie e marito, con la certezza di fare un grande affare. Lui, persona di altissimo livello, da solo avrebbe potuto pretendere un’Università più prestigiosa. Che però non avrebbe dato un posto anche a lei. Lei a Davis non sarebbe stata considerata come singola, ma ad un’analisi attenta dava comunque garanzie di inserirsi bene in Dipartimento e di fare un più che onesto lavoro. Del resto, mica sono tutti geni quelli che lavorano all’Università…La conclusione del Dipartimento è stata che l’operazione, trasparente, avrebbe portato vantaggi a tutti.

Mi è capitato, e non una sola volta, di trovarmi in dipartimenti con coniugi, e queste situazioni qualche imbarazzo possono crearlo. Ma posso garantire che in un ambiente di lavoro corretto la cosa è tranquillamente gestibile.

In sostanza quindi, dove sta il punto? Il punto sta che, nel lavoro e forse non solo nel lavoro, pretendere di rendere le persone oneste a forza di leggi e di proibizioni abbastanza arbitrarie, non porta mai da nessuna parte. Emanare grida, si sa, non è difficile. Ma quel che occorre davvero fare, e che si fa nei Paesi seri, è di rendere non conveniente alla struttura tutta un uso personale di una sua parte. Detto in altre parole, se si premiano le strutture che lavorano bene e per il bene comune, e si affama quelle gestite come il casato di famiglia, le cose cambierebbero davvero. Non è facile, lo so. Ma sono i problemi a non essere facili, e prendere vie sbagliate è comunque sempre peggio di provare, con fatica, a fare le cose giuste.   E purtroppo questo è solo un piccolo esempio dell’approccio sbagliato che il nostro Stato si ostina a portare avanti, con sempre maggior pervicacia, in situazioni come queste.